lunedì 14 settembre 2009

ATTRAVERSO IL DOLORE

L'ambulanza procede senza fretta; ogni sobbalzo provoca dolorose contrazioni allo stomaco già martoriato da due giorni di conati, vampate sudorifere e vertigini che solo nel sospirato letto trovano il bramato sollievo.
Il "Pronto Soccorso" dell'ospedale provinciale preannuncia la tipica atmosfera del luogo. I lamenti si susseguono e i toni si alternano; figure affrante denunciano l'apprensione per i congiunti colpiti e tentano di alleviare i loro tormenti confidando nei già pressati professionisti addetti alle prime cure, obbligati a procedere sulla base della gravità delle sintomatologie diagnosticabili. La pazienza è d'obbligo e non pochi attendono con forzata rassegnazione l'evolversi degli eventi. Ognuno è assorto nel proprio ruolo e raramente il clima si caratterizza da quel briciolo di socializzazione, utile per alleggerire la generale angoscia.
L'elettrocardiogramma è il primo esame; provo una momentanea sensazione di sollievo per il rapporto diretto con l'addetto che mi distoglie, temporaneamente, dalle precedenti sensazioni. Il ritorno alla locazione d'origine ripropone l'immagine brevemente rimossa.
Un giovane dottore, verificate le prime analisi, mi dice che potrei tornare a casa o restare per ulteriori accertamenti. Forse tradito dal mio sbigottimento opta per la seconda ipotesi.
La notte trascorre pressoché insonne a causa dei terribili cuscini e di tutta una serie di terminali collegati ad un monitor di controllo; verso l'alba cedo alla stanchezza. Dopo un tempo, che mi è parso brevissimo, una voce flebile, ma decisa, invita al 'sacramento' della "comunione"; la figura del mattiniero religioso che si staglia all'ingresso non riceve alcun consenso, ma solo qualche bofonchiata maledizione.
Il trasferimento al reparto neurologico è d'obbligo. Durante il percorso l'interrogativo ricorrente è concentrato sulle figure dei futuri sventurati di camera; confido comunque nel mio accattivante temperamento, che già in altre occasioni ha risolto al meglio la forzata convivenza.
Il primo impatto mi rasserena alquanto, ma il naturale raziocinio consiglia l'adeguata diffidenza.
Il residuo di vertigini, che permane, contribuisce a mitigare la loquacità; l'aria che si respira è però quella impregnata dal dolore, che accumula ogni tribolato e scioglie presto ogni riserbo.
Renato, il testimone di "Geova" è alla mia destra; Maurizio, giornalista ed ex redattore capo di vari quotidiani, esplode spesso nella sua raffinata eloquenza, mostrando vasta cultura e ampia informazione. Una fonte inesauribile di apprendimento; Paolo mi è di fronte e possiede le qualità dell'uomo qualunque, stigmatizzate dal mini-TV che, spesso, dimentica acceso in fase di assopimento notturno. Io, miscredente, anarchico quanto basta per sollevare pacifiche questioni e affabili dibattiti di circostanza. Un gruppo etereogeneo e sintomatico; non potevo sperare di più.
L'afflizione che aleggia si attenua e pare contagiare anche le camere adiacenti; lo 'spirito' che caratterizza la nostra coesistenza sembra espandersi e penetrare in ogni degente, persino il personale di servizio approfitta della pacata vivacità e delle interessanti argomentazioni che si affrontano in quel ristretto ambito.
Lentamente i drammi di ognuno emergono, seppure con comprensibile fatica, ma anche con la serena disponibilità di chi è consapevole della indulgenza dei nuovi amici di sventura; un bisogno di liberarsi e condividere il triste destino che il dolore affastella. L'umore migliora e, conseguentemente, anche il fisico ne trae evidente beneficio. Per qualche settimana mi è parso di svolgere, nel ristretto spazio consentito, l'efficace ruolo del Dott. Patch Adams.
Ho avuto infine la conferma che mi attendevo. L'ospedale può essere fonte di sagge riflessioni, utili per meglio comprendere il reale "senso della vita", acquisire la consapevolezza della nostra fragilità e vacuità per meglio rapportarci con gli altri, l'ambiente e noi stessi.
Un'afflizione che può aiutarci a ritrovare la nostra umanità.

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